da Il Corriere della Sera
Che cosa hanno in comune quelle migliaia o forse decine di migliaia di associazioni, movimenti, organizzazioni che si battono oggi in ogni continente per la cura e la salvaguardia del mondo e dell’umanità? Che cosa unisce i promotori delle economie sociali e solidali, i difensori dei diritti dell’uomo, della donna e dei lavoratori, gli inventori dei sistemi di scambio locale (dalle banche del tempo alle varie forme di volontariato), la rivendicazione del buen vivir, la ricerca di indicatori di ricchezza alternativi al Pil, Slow Food e gli Indignados, i promotori della sobrietà volontaria e i difensori dei beni comuni? Viviamo un’epoca caratterizzata da minacce incombenti: il riscaldamento globale, la crescita delle diseguaglianze e della disoccupazione, il proliferare delle mafie e della corruzione. L’insicurezza pervade una contemporaneità che spesso reagisce trasformando la sicurezza in un’ossessione. Il crollo dei sistemi politici del passato non è supportato da forme di immaginazione che ci aiutino a trovare nuove vie del vivere insieme in società di grandi dimensioni.
Viviamo però, ugualmente, un’epoca di speranze e di promesse: la democrazia si diffonde ovunque e anima movimenti contro i dittatori e contro la finanziarizzazione del mondo; le tecnologie informatiche promettono una maggior condivisione e partecipazione ai saperi e un accesso partecipato al potere; la ricerca mette a punto nuovi ed efficaci strumenti per la «transizione ecologica » verso forme di economia sostenibile.
È a partire da queste premesse e su proposta del sociologo francese Alain Caillé che un nutrito gruppo di intellettuali appartenenti a università e centri di ricerca americani, asiatici, mediorientali ed europei ha redatto e sottoscritto il Manifesto convivialista. Dichiarazione di interdipendenza, uscito di recente in Italia per le edizioni Ets. Tra i firmatari ci sono Edgar Morin e Serge Latouche, tra gli italiani Francesco Fistetti (autore di una lunga postfazione al Manifesto) ed Elena Pulcini.
«Convivialismo» è un neologismo coniato ad hoc, un termine che si vuole simbolo e bandiera di un filo capace di unire le pezze di un patchwork variegato e tuttavia forte e resistente. I convivialisti promuovono «l’arte di vivere insieme (con-vivere) che valorizza la relazione e la cooperazione e che permette di contrapporsi senza massacrarsi, prendendosi cura degli altri e della natura ». Se il Manifesto convivialista fosse stato redatto in italiano, forse i suoi promotori avrebbero scelto come nomi-simbolo il «con-vivere», il «con-dividere», la «con-vivenza» o un neologismo come «con-dividersi»: uno insomma di quei numerosi termini del «con-» che enfatizzano nella nostra lingua il «noi» piuttosto che l’«io», la relazione piuttosto che l’individualità. L’interdipendenza, richiamata nel sottotitolo del Manifesto, esprime una concezione relazionale della persona. Una concezione diffusa nell’humus culturale in cui il testo ha preso forma, quella del «Movimento anti-utilitarista delle scienze sociali», il cui acronimo (Mauss), riproduce il cognome di quel Marcel Mauss che novant’anni fa diede alle stampe il Saggio sul dono (Einaudi), svelando o ricordando all’Occidente l’esistenza di una logica economica alternativa o complementare a quella del mercato. Proprio all’inizio degli anni Ottanta, Caillé (Il terzo paradigma, Bollati Boringhieri, 1998) fu tra i fondatori del Mauss, che non ha mai cessato di perseguire una terza via da affiancare allo Stato e al mercato.
I convivialisti non sono contro il mercato e la loro ricerca di una miglior cura dell’umanità e del mondo non prescinde dal conflitto. «Il mercato e la ricerca di una redditività monetaria sono pienamente legittimi dal momento in cui rispettano i postulati di comune umanità e di comune socialità, e dal momento in cui sono coerenti con le considerazioni ecologiche». Quattro sono i principi che, nella filosofia dei convivialisti, dovrebbero animare la buona politica. Il principio di comune umanità afferma che esiste una sola umanità che deve essere rispettata nella persona dei suoi membri, al di là delle differenze di colore della pelle, nazionalità, genere, ricchezza ecc. Il principio della comune socialità afferma che la più grande ricchezza dell’umanità sono i rapporti sociali. Il principio di individuazione è quello che permette a ciascuno di sviluppare la «propria singolare individualità in divenire». Infine, il principio di opposizione controllata è quello che permette agli esseri umani di differenziarsi, accettando e controllando il conflitto.
In questo quadro il problema non è costituito dal mercato in sé: la madre di tutte le minacce che oggi affliggono l’umanità è piuttosto il neoliberismo, ovvero la mostruosa e indebita estensione dell’economia, della competizione e della ricerca del profitto individuale a (praticamente) tutte le sfere dell’agire umano. A partire dagli anni Settanta, la scienza economica e la sua creatura fittizia (l’homo oeconomicus) ha «cominciato ad estendere la validità potenziale delle sue spiegazioni all’integralità delle attività umane». Le complesse motivazioni che spiegano l’agire umano sono state ipersemplificate e ridotte al solo perseguimento dell’interesse individuale. Se «niente è fatto per senso del dovere, per solidarietà o per il gusto di un lavoro ben fatto e il desiderio di creare, allora non restano da attivare che le “motivazioni estrinseche”, ovvero il gusto del guadagno e della promozione gerarchica». Se arricchirsi è il primo scopo legittimo, se l’homo oeconomicuscoincide con la natura umana, come stupirsi davanti al trionfo della finanza, ai paradisi fiscali, al dilagare della corruzione politica? Il fantasma della scienza economica diffusa a ogni livello della realtà ha colonizzato il mondo.
La madre di tutte le minacce è ugualmente rappresentata dall’idea che l’umanità possa perseguire una crescita economica infinita. Anche se Serge Latouche è tra i firmatari del Manifesto, i convivialisti in realtà non sono sostenitori della decrescita. Si tratta piuttosto di immaginare delle democrazie post-crescita: per promuovere l’uguaglianza di opportunità, il ben-vivere e la libertà di un crescente numero di persone nel mondo non ci si può più affidare al sogno di una crescita infinita che rischia di trasformarsi nel peggior incubo dell’umanità. Altre sono le ricette che i convivialisti cucinano per un rinnovamento della politica e dell’umanità: prima fra tutte una migliore distribuzione delle risorse attraverso l’adozione di un salario minimo e di un profitto massimo. In secondo luogo l’uso di nuove tecnologie al servizio della «transizione ecologica»; e ancora la considerazione delle reti telematiche come beni comuni accessibili a tutti. Il web, come l’acqua e l’aria che respiriamo, dovrebbe essere destinato a divenire in breve tempo uno dei commons sottratti alle dinamiche del mercato.
È insomma un ben-vivere a crescita zero quello che i convivialisti auspicano, insistendo sulla necessità di instaurare con la Natura un rapporto improntato alla logica maussiana del dono e della reciprocità. La relazione di dono e contro-dono dovrebbe esercitarsi soprattutto nei confronti degli animali, i quali «non devono più essere considerati come materiale industriale».
Espressione della corrente progressista, ma moderata, del Mauss, i firmatari del Manifesto non sono sognatori idealisti. Il conflitto, scrivono, è parte integrante delle relazioni sociali. Esso «esiste necessariamente e naturalmente in ogni società». Il problema però, ancora una volta, è che la svolta neoliberista degli anni Settanta ha trasformato il conflitto in una hybris incontrollata. L’aspirazione di ogni essere umano a vedersi riconosciuto nella sua singolarità si è tradotta nell’idea che comunque e dovunque l’uomo persegua il proprio interesse individuale (l’homo oeconomicus) o comunque un potere inteso come relazione gerarchica diffusa (l’homo strategicus che popola le narrazioni foucaultiane e agambeniane della contemporaneità).
Che fare dunque per valorizzare le ricchezze umane come la gratuità, la creatività, le relazioni con gli altri? Occorre indignarsi per la dismisura con cui alcuni perseguono il profitto attraverso la corruzione; rafforzare la consapevolezza di non essere soli, ma che ormai una comunità mondiale si batte per un mondo umanizzato («siamo il 99%», gridavano i giovani di Occupy Wall Street); occorre valorizzare la mobilitazione degli affetti e delle passioni, contro i cupi teorici delle «scelte razionali ». Su queste basi, concludono gli estensori delManifesto, «sarà possibile per quelli che si riconoscono nei principi del convivialismo influenzare radicalmente i giochi politici istituiti e sviluppare tutta la loro creatività per inventare altre maniere di vivere, di produrre, di giocare, di amare, di pensare e di sognare». Serviva un nuovo Manifesto per indebolire il virus pan-economico che vaga per il mondo e cucire insieme le motivazioni di coloro che vi si oppongono, contribuendo a rafforzare la coscienza di appartenere a una comunità globale di antiutilitaristi? Forse sì, anche perché, come scriveva profeticamente Marcel Mauss nel Saggio sul dono, «sono state le nostre società occidentali a fare, assai di recente, dell’uomo un “animale economico”. Ma ancora non siamo diventati tutti esseri di questo genere. (…) L’uomo è stato per lunghissimo tempo diverso, e solo da poco è diventato una macchina, anzi una macchina calcolatrice».
Adriano Favole
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